Nel giro di pochissimo tempo tutti noi, volenti o nolenti, siamo passati da essere dei semplici ricettori di messaggi, un pubblico quindi per lo più passivo, ad essere in tutto e per tutto una sorta di “media maker”, attivi nella produzione di video, fotografie, articoli avvalendoci per questo dell’imperante forza digital e degli strumenti che la stessa mette a disposizione.
Si può dire perciò che sia avvenuta una sorta di democratizzazione dei media che, se da un lato porta tutti coloro che lo desiderano a poter in un qualche modo comunicare, dall’altro va senza dubbio ad intaccare figure professionali specifiche che fanno della parola un lavoro e che risultano per questo sminuite o oscurate da tutti questi comunicatori improvvisati.
La ricaduta globale del fenomeno può essere considerata per certi versi una sorta di apertura verso il nuovo ma al contempo fa vedere tutti i limiti e i rischi della stessa.
Non ultima la sorta di alienazione che talvolta i social media e gli strumenti di comunicazione di massa possono produrre andando a creare un’affettività desertificata, dove nessuno può dirsi solo ma tutti noi in un qualche modo sentiamo e teniamo di
esserlo. Questo, di conseguenza, porta a una continua forma di accettazione ricercata attraverso i “like” sugli elementi condivisi e a una legittimità della propria esistenza nella misura in cui ci sentiamo riconosciuti e apprezzati dagli altri.
Il rischio è quindi un continuo potenziamento della propria identità digitale mortificando quella più reale e concreta, rischio da tenere sicuramente il più possibile arginato.